La canzone italiana tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta

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Prima di cominciare con qualsiasi riflessione sul disco di Claudio Baglioni, riteniamo opportuno fare un brevissimo cenno a quanto musicalmente accadeva in Italia nel periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, evidenziando il contesto storico nel quale si inserisce Oltre.

Se gli anni Settanta si erano caratterizzati per essere gli anni dell’impegno politico e sociale dei cantautori, gli anni Ottanta si sono distinti invece per andare nella direzione opposta, quella del cosiddetto disimpegno. Ciò era dovuto alla distanza sempre maggiore tra la politica e il paese reale (che raggiungerà il culmine con l’inchiesta Mani pulite del 1991): c’era una diffidenza man mano crescente verso i politici e la dimensione pubblica e sociale, e dunque era naturale che questo clima si riflettesse anche nelle canzoni. A fotografare il momento di transizione dall’impegno al disimpegno era una canzone di Rino Gaetano: Nun te reggae più (1978), in cui veniva cantata tutta l’insofferenza verso una serie di personaggi che spaziavano da politici ad imprenditori, da giornalisti a monsignori.

All’impegno sociale e all’idealismo degli anni Settanta, si sostituiva quindi la mancanza di punti di riferimento e il vuoto d’ideali degli anni Ottanta. Franco Battiato cantava esattamente questo nella canzone che nel 1981 gli diede un enorme successo: Centro di gravità permanente. La mancanza di punti di riferimento finì dunque con l’essere oggetto delle canzoni, e nessuno meglio di Vasco Rossi riuscì ad interpretare il vuoto e il senso di smarrimento dei giovani dell’epoca, attraverso canzoni come Vita spericolata (1983) e, soprattutto, Siamo solo noi (1981) che diventò a tutti gli effetti un vero e proprio inno generazionale: “Siamo solo noi / generazione di sconvolti / che non han più santi né eroi”.

Il noi a cui si riferisce Vasco Rossi, però, è un noi in cui ognuno è “perso dentro i fatti suoi” (come cantava in Vita spericolata), è un noi a cui di tutto il resto del mondo non importa assolutamente nulla. Si tratta di un riferimento alla collettività che è molto diverso, ad esempio, da quello dei giovani degli anni Sessanta. Quando Bob Dylan cantava “Io”, era un io che significava in realtà noi, mentre in Vasco Rossi accade esattamente il contrario. Vasco Rossi ha rappresentato perfettamente gli anni Ottanta perché è stato colui che ha raccontato meglio di tutti l’individualismo della società di quel periodo.

All’allontanamento dai temi politici e sociali corrisponde quindi un ritorno al privato, e i momenti di vita quotidiana tornano ad essere temi centrali nelle canzoni degli anni Ottanta. Allo stesso modo, anche la lingua italiana si avvicina alla lingua di tutti i giorni, facendo anche uso di termini gergali o di parole volgari. Nel primo caso, basti pensare all’uso del termine “bestiale” in canzoni come Domenica bestiale (1982) di Fabio Concato, o Ci vuole un fisico bestiale (1992) di Luca Carboni, mentre del secondo caso sono esemplificative alcune canzoni di Zucchero. Questa tendenza ad occuparsi di temi più vicini alla sfera privata e personale che a quella pubblica e collettiva, con un linguaggio comune e senza troppi fronzoli, è una tendenza che è assolutamente dominante lungo tutto il corso degli anni Ottanta, ma proseguirà anche negli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila.

Tuttavia, il periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta è stato particolarmente ricco di spunti diversi, più attenti alla ricerca di un linguaggio poetico nuovo che all’imitazione del linguaggio quotidiano. Questo periodo di sperimentazioni con la lingua italiana è ben rappresentato dalla collaborazione tra Lucio Battisti e il poeta Pasquale Panella. I due lavorarono insieme per produrre cinque album, da Don Giovanni (1986) a Hegel (1994), i cui esiti artistici furono tanto rivoluzionari quanto criticati da chi rimpiangeva le canzoni del binomio Mogol/Battisti. Le nuove canzoni, infatti, erano fortemente influenzate dai testi di Panella, così pieni di giochi di parole e doppi sensi, di difficile comprensione, e con un’attenzione particolare all’elemento puramente sonoro delle parole. Dal punto di vista musicale, invece, Battisti scriveva melodie che erano quasi dei recitativi, e che si poggiavano su arrangiamenti che facevano ampio ricorso all’elettronica. In ogni caso, è innegabile che la collaborazione tra Battisti e Panella abbia portato ad un avanzatissimo ambito di ricerca nel territorio della canzone d’autore.

Un altro esempio di sperimentazione linguistica che avveniva in quegli anni è quello degli ultimi lavori di Fabrizio De André. Dopo l’esperienza dell’album Crêuza de mä (1984), interamente cantato in lingua genovese, nel 1990 esce Le nuvole, che alterna l’italiano al genovese. De André si lamentava – come molti altri autori di canzoni – della scarsa duttilità della lingua italiana a causa della mancanza di parole tronche, e dunque era interessato ai dialetti anche per questo motivo, oltre che per un fatto di sonorità. Il suo interesse verso i miscugli linguistici si sarebbe ulteriormente sviluppato nell’album successivo, Anime salve (1996), che fu anche l’ultimo prima della morte: in quel disco si intrecciavano italiano, genovese, portoghese, lingua rom e sardo.

Questi pochi esempi evidenziano il tentativo degli artisti dell’epoca di rinnovare l’uso della lingua italiana nelle canzoni, e allo stesso tempo mostrano quanta attenzione alla qualità ci fosse nel periodo intorno al 1990. Sarà forse per via dell’eccezionalità delle proposte musicali che proprio il 1990 è stato un anno particolarmente felice per la musica italiana, sia in termini di vendite di dischi che di biglietti venduti per i concerti. Basti ricordare il successo travolgente di un album come Cambio (1990) di Lucio Dalla, che ha venduto 1.400.000 copie trainato dal singolo Attenti al lupo (“canzoncina” scritta da Ron, a cui lo stesso autore non aveva dato inizialmente grande importanza). Sul versante della musica dal vivo, invece, Vasco Rossi nel luglio del 1990 faceva il tutto esaurito negli stadi San Siro a Milano e Flaminio a Roma, mentre i grandi artisti stranieri nella stessa estate registravano fiaschi clamorosi. La situazione era talmente a vantaggio degli italiani che Vasco Rossi, di fronte alla possibilità di aprire i concerti italiani dei Rolling Stones, declinò l’offerta, visto che lui in Italia vendeva molto più di loro.

In questo clima esaltante per la musica italiana, prima della degenerazione portata dalla globalizzazione musicale, si inserisce un disco che di quel periodo è la gemma più brillante: Oltre, di Claudio Baglioni.

«Il primo a partire per il fronte del palco sarà Fabrizio De André […]. Segue a ruota, da metà marzo, Claudio Baglioni, che per ben figurare dopo la sua ultima, fischiata apparizione al tour di Amnesty International di tre anni fa (al fianco di Sting, Bruce Springsteen, Peter Gabriel, Tracy Chapman, e Youssou N’Dour) non bada a spese. Per l’occasione si è fatto progettare uno speciale tendone da cinquemila posti, tutti numerati, con un sofisticatissimo sistema di acustica che dovrebbe permettere anche allo spettatore dell’ultima fila di sentire nel migliore dei modi. […] Proclami da grandi occasioni. E i tour quest’anno lo sono davvero, per almeno un paio di buone ragioni. La prima è il clamoroso sorpasso consumato nelle preferenze del pubblico lo scorso anno tra musicisti italiani e stranieri. Dopo i flop estivi di Madonna, Prince e dei Rolling Stones (stadi mezzi vuoti, perdite miliardarie per gli organizzatori) e il tutto esaurito poche settimane dopo di Francesco Guccini, Ivano Fossati, Paolo Conte, Ornella Vanoni, Angelo Branduardi, Gianna Nannini, i Litfiba, Enrico Ruggeri e Francesco Baccini, anche i più pigri tra i manager avevano cominciato a prepararsi con nuovo entusiasmo al ’91.

La seconda ragione è tattica: con la guerra del Golfo in corso, le multinazionali del disco americane hanno caldamente sconsigliato ai loro artisti di avventurarsi in voli transcontinentali».

Scarpellini Paolo, Panorama, 10 febbraio 1991.

 

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