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La canzone precedente terminava con una corsa che dava lo slancio al volo finale, e quell’immagine di libertà sembra trovare il suo compimento in Pace, brano che conclude l’album e la storia del percorso interiore di un uomo in cerca di sé.
Intro : L’arpeggio di una tastiera con effetto di riverbero crea fin da subito l’atmosfera di quiete preannunciata dal titolo, e oltre al timbro dello strumento anche la staticità melodico/armonica è sicuramente importante nel comunicare tranquillità. L’arpeggio della tastiera, infatti, si ripete uguale in ogni battuta, e la tonalità di Mi♭ maggiore rimane ben piantata sull’accordo di tonica per tutte le quattro battute dell’introduzione, come è possibile vedere nell’esempio musicale sottostante.
A – AI : L’atmosfera di immutevole tranquillità prosegue anche nella strofa, ma il suo significato diventa man mano più chiaro: l’intenzione è quella di voler dare all’ascoltatore la suggestione di essere come fuori dal tempo, e dunque la staticità della base armonica è motivata da questa finalità. A chiarire questa intenzione è un accompagnamento ostinato con armonie molto semplici su un pedale di tonica (Mi♭), come si può vedere dall’esempio che segue.
Il testo, da parte sua, non fa che confermare la sensazione di essere fuori dal tempo, visto il largo respiro che lo caratterizza sin dalle prime parole, con “L’immenso soffio dell’oceano”. Entrando più nel dettaglio, vediamo come questo verso introduca la strofa A, che racconta l’arenarsi delle conchiglie su una spiaggia, e la conseguente morte nel loro allontanarsi dal mare. In AI, similmente, sono gli stambecchi a trovare la morte sulla cima di una montagna. Al contrario di quanto accadeva in altri momenti dell’album, in cui ai concetti di morte e dolore venivano associati movimenti melodici discendenti (come in Stelle di stelle o Qui Dio non c’è), stavolta la musica esprime tranquillità con il pedale di tonica ed una palese staticità, come già visto. Nessun lamento, nessuna imitazione musicale del dolore. Perché? Evidentemente perché in questo caso la morte viene accettata come momento inevitabile e naturale di un ciclo vitale che regola tutte le cose dell’universo. In questa canzone conclusiva il processo di maturazione di un uomo si è completato, e la morte non è più causa di dolore, ma semplicemente una fase all’interno di un ciclo naturale. La musica dunque si adegua a questa constatazione, suggerendo sonoramente l’idea di un limbo, superiore alla vita e alla morte. La cadenza finale, prima di passare alla sezione successiva, è una cadenza d’inganno, che sblocca la staticità che ha caratterizzato il brano fino a questo momento per portare a qualcosa di nuovo.
B : La sezione B è effettivamente qualcosa di diverso, perché dopo la staticità di prima segue ora una parte che, musicalmente, alterna le tonalità di Mi♭ maggiore e – per un attimo – Do minore. Il testo, intanto, mostra il dialogo tra l’io cantante, e un fratello che viene descritto come “un mago, un angelo immortale”. Si scoprirà presto che questo generico fratello non è altro che il lato magico di una stessa persona che dialoga con sé stessa.
C : Lo sfogo lirico arriva adesso, con un cambio di tonalità in Si♭ maggiore che sposta l’ambito melodico più in alto, e con le sincopi che danno maggior respiro ad una musica che con la sua apertura è in simbiosi col testo, che ora esprime armonia per via della raggiunta pace interiore inseguita lungo tutto lo svolgimento narrativo dell’album. Il testo fa riferimento ad un noi (“Pace a noi…”) che non è riferito solo all’io e al fratello di prima, ma assume in questo contesto una valenza più ampia, abbracciando ipoteticamente tutta l’umanità in una pace dal significato universale. Il riferimento alla nascita, e al primo grido che è un pianto, è ciò che accomuna tutti indistintamente, a prescindere da qualsiasi differenza. Dal punto di vista musicale, è molto interessante ciò che accade in corrispondenza delle parole “e il bambino è un uomo / che il suo nome / non sa dire mai”. In questo punto, infatti, il giro armonico va alla ricerca di una tonalità senza soffermarsi su alcuna: le tonalità sono smentite di volta in volta, senza mai affermarle (se non alla fine, sulla parola “mai”). È una ricerca continua che è in simbiosi con il contenuto del testo: ci sono tante domande ma nessuna risposta, nemmeno sulla propria identità. È lo stesso Baglioni a confermarlo: «Non è un disco che fa un bilancio, anzi: è un disco senza risposte, alla fine, perché per come abbiamo voluto – io insieme ad altre persone – raffigurarlo anche graficamente, l’essenza del disco è una lunga onda, e un’onda non si ritrova mai, cioè non riesce mai a ricongiungersi dalla parte opposta, dalla parte finale. Quindi è una maniera di continuare, di essere in una continua metamorfosi, sperando ogni tanto di avere delle risposte, ma le risposte sono un vero miracolo. L’importante, comunque, è chiedersi cosa sta succedendo. E credo che il disco, nel suo tessuto musicale ma anche nel suo tessuto – diciamo – letterario, possa rispecchiare questo. È un disco senza una risposta vera finale, ma un disco con tante domande»[1].
Ripetizione di AII – AIII – B – CI : La struttura osservata fino ad ora si ripete a questo punto con alcune variazioni minime dal punto di vista della melodia, mentre il testo riprende gli stessi argomenti già affrontati, pur proponendo immagini diverse. Le due strofe A continuano a girare intorno al tema della morte, sempre con la serenità di cui si è già detto, e questa volta fanno riferimento al canto di una sola estate delle cicale, e ad un personaggio di nome Virgilio. Il riferimento, in questo secondo caso, è evidentemente all’antico poeta latino autore dell’Eneide, che fu guida di Dante nelle prime due cantiche della Divina Commedia. Baglioni in questo caso è abbastanza chiaro, perchè lo descrive come “guida di quei poeti / che un giorno si smarrirono”[2]. La ripetizione di B porta alla separazione tra l’io cantante e il suo omologo infantile e magico, quel Cucaio che era apparso già altre volte nel corso dell’album. Claudio Baglioni descrive così questa parte importante della canzone e dell’intero album: «Cucaio è la parte magica del disco, di questo cielo mago che non è qualcosa di impalpabile, ma è terreno. Cucaio è l’uomo che non sa pronunciare bene il proprio nome, che non sa da dove tragga origine né dove stia andando; quali siano le sue ansie, i suoi problemi e le sue gioie. Credo esista, nella vita di ognuno, una parte umana e una magica: la prima è quella che soffre di più, perché nel tentativo di confrontarsi con la seconda sa di non poterla emulare. Cucaio è questo, e rappresenta il momento in cui, oltretutto, lo si deve abbandonare per passare oltre»[3]. In queste parole di Claudio Baglioni si può riconoscere il concetto filosofico di volontà di potenza, caratteristico del pensiero di Friedrich Nietzsche. La volontà di potenza è la volontà che vuole sé stessa, è una volontà che vuole rinnovare continuamente i propri valori. Tuttavia, c’è anche un aspetto paradossale in tutto ciò, perché la volontà deve contemporaneamente volere ma anche negare sé stessa, per evitare di soffermarsi su un punto di vista ritenuto conclusivo. Alla potenza della creatività deve succedere di volta in volta il suo annientamento, per poter rinascere di nuovo. Appare dunque evidente l’affinità tra questo concetto e il testo della canzone in questa sezione: “Ci serve pure d’arrivare lì / per ripartire nuovamente”. Dopo aver lasciato Cucaio, l’io cantante si rivolge a sé stesso (“Pace a me”) e in CI si lascia andare ad un momento di profonda riflessione interiore (mentre in C, invece, si rivolgeva ad una pluralità di persone: “Pace a noi ”). Baglioni continua a fare riferimento ai pensieri di Friedrich Nietzsche: in questo caso soffermandosi sul concetto di oltreuomo[4] che era, per il filosofo tedesco, immagine di un rinnovamento interiore che si realizza attraverso l’apertura a nuovi valori, superando i limiti della morale comune. Sempre secondo Nietzsche, è solo accettando il rischio di restare in bilico sulla corda tesa sopra l’abisso che l’uomo ha la possibilità di essere diverso da quello che è, nel senso più autentico, più completo, più libero, ed è proprio in questo senso che va interpretato il verso in cui Baglioni canta “fermo sull’abisso tra il rischio e la paura”. Nietzsche si spingeva anche a dire che persino la malattia rappresenta un’energica stimolazione ad oltrepassare i propri confini, ad andare verso una oltrevita. Perciò, l’uomo che è guarito dalla malattia mortale della morale tradizionale rinasce a nuova vita: ciò che non lo uccide lo rende più forte[5], e anche questo pensiero viene parafrasato da Baglioni in “cosa non mi uccise / mi lasciò la forza di vivere”. A questo punto, tornando per un attimo indietro, risulta anche chiaro il motivo per cui nelle sezioni A si fa riferimento alla morte come momento di un ciclo naturale, richiamando un altro concetto fondamentale del pensiero di Nietzsche: quello di eterno ritorno. L’idea che il tempo si ripeta sempre uguale a sé stesso all’infinito, e che ogni evento sia già accaduto e sia destinato a ripetersi esattamente uguale per sempre, fa sì che anche la morte venga accettata come parte di un divenire, di un ciclo naturale, appunto.
CII : Il sentimento dell’accettazione sembra essere dunque quello che alla fine della canzone, e dell’intero album, dà serenità all’uomo in cerca di sé, e questi versi sembrano confermarlo: “Pace a te per quello che mi hai dato / e per tutto ciò che tu non mi desti mai”. Nel passaggio da CI a CII avviene un cambio di tonalità che porta da Si♭ maggiore a Do maggiore, efficacissimo nel sottolineare lo slancio lirico che conclude l’intero album, visto che la tonalità di Do maggiore è ancora più positiva di quella di Si♭ maggiore. La pace conquistata alla fine di questo percorso interiore è legata all’aver trovato “un mondo uomo / sotto un cielo mago”; metafora che è spiegata da Baglioni in questo modo: «Questo cielo mago non è qualcosa di impalpabile: è un cielo terreno, può rappresentare una vita non immaginata, ma una vita vissuta cercata con l’immaginazione»[6].
Coda : Dopo il lunghissimo acuto sul finale di CII, la coda torna nella tonalità iniziale di Mi♭ maggiore, proponendo nuovamente un arpeggio di tastiera (diverso da quello dell’introduzione) che ricrea la quiete attraverso la staticità melodico/armonica. In questa sorta di limbo musicale la voce di Baglioni, ampiamente riverberata, conclude la canzone e l’album recitando: “Ora sono libero. Un uomo. Oltre”.
[1] Dichiarazione di Claudio Baglioni, ospite alla puntata speciale del Maurizio Costanzo Show del 15 novembre 1990.
[2] Dante comincia la sua opera raccontando proprio di essersi smarrito: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita”. Nel caso di Dante, al significato letterale si sovrappone quello allegorico, e dunque lo smarrimento della retta via è uno smarrimento morale nel quale si trova coinvolto non solo il poeta, ma l’umanità intera. Vale la pena notare che dal punto di vista strettamente anagrafico sia Dante che Baglioni si trovano ad affrontare una crisi esistenziale di mezza età. A proposito di Virgilio, Baglioni dice anche: “Virgilio cadde mentre era in volo sopra un prato / che le sue ali non si aprirono”. Sebbene questi versi possano rievocare erroneamente la figura di Icaro, il riferimento corretto è un altro, e occorre ricordare un passo della stessa Divina Commedia per interpretarli correttamente. Nell’Inferno, al Canto IV, verso 111, si legge: “giugnemmo in un prato di fresca verdura”. Le anime sapienti del Limbo dimorano in un castello al centro di un grande prato. Questa raffigurazione del Limbo non è un’invenzione di Dante, tant’è che anche Omero e Virgilio avevano immaginato gli spiriti sapienti in un grande prato. Quindi, per tornare ai versi di Baglioni, Virgilio cadde in volo sopra un prato perché morì prima di riuscire a terminare l’Eneide, che rimase un’opera incompiuta (fonte: l’interpretazione di questo passo su Virgilio è di Morfina, della mailing list di Reginella.net. Nello stesso sito c’è chi dice anche che il riferimento possa essere ad un amico di Claudio Baglioni che morì in volo, tant’è che nei concerti il nome “Virgilio” viene sostituito regolarmente con “l’amico”).
[3] Intervista a Claudio Baglioni, in: Bianchi Stefano, “Claudio Baglioni”, Tutto, dicembre 1990, p. 21.
[4] Inizialmente, il termine Übermensch fu tradotto con il termine fuorviante superuomo, e solo in un secondo momento fu tradotto come oltreuomo e riportato ad un significato più vicino a quello letterale da Gianni Vattimo, nella metà degli anni ’60.
[5] Questa celebre affermazione di Nietzsche è contenuta nel primo capitolo di Ecce Homo, opera filosofica autobiografica pubblicata nel 1888.
[6] Dichiarazione di Claudio Baglioni, ospite alla puntata speciale del Maurizio Costanzo Show del 15 novembre 1990.
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- Prefazione di Roberta Massaro (ClaudioBaglioni.net)
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